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Tratto da "Belluno e la sua storia ..." post interessante ( lungo ma interessante )

FAMEIA DEI ZATÈR E MENADÀS DEL PIAVE
Associazione storico culturale dei dendrofori e zattieri del Piave II°-XX° Sec. D.C.
Codissago di CASTELLAVAZZO BELLUNO
Storia della zattera e degli zattieri
Dal Rinascimento fino alla seconda guerra mondiale
Dal 1492 al 1942 anno durante il quale sul Boite si svolge l’ultima “menada”, fluitazione di legname, abbiamo una continua evoluzione nelle tecniche di taglio trasporto fino alle segherie segagione del legname e costruzione delle zattere.
Alla fine del 1700 questo sistema era ormai consolidato eVenezia poteva contare ogni anno su una quantità di legname pari a 350.000 tronchi. Aveva messo sotto tutela tre boschi, il bosco di abeti detto degli alberi di S. Marco sopra Auronzo nella valle dell’Ansiei,il bosco dei remi di S. Marco costituito da piante di faggionel Cansiglio, il bosco dei roveri del Montello.
Tra Perarolo e Castellavazzo vi erano tredici grandi impianti di segheria per complessive 122 seghe, altri due impianti si trovavano nel territorio di Sedico alla confluenza del Cordevole nel Piave con 20 seghe. Al taglio trasferimento fino al fiume, fluitazione, segagione e trasporto con zattere fino a Venezia di questa enorme quantità di legname provvedevano una serie di operai specializzati: I boscaioli, i menadas, i segantini e gli zattieri
I boscaioli
Tipi di legname
Nelle vallate del Cadore, del Comelico, dell’Ampezzano e dell’Agordino, le piante abbattute erano soprattutto abete bianco, abete rosso e larice. Nella foresta del Cansiglio si coltivavano i faggi, che servivano per fare soprattutto i remi delle galee.
Il Montello era il bosco protetto dei roveri, questa essenza era utilizzata per le parti portanti della nave, le ordinate e la ghiglia, le piante venivano piegate fin da piccole affinchè il tronco si curvasse e assumesse la forma della parte della nave per cui era utilizzato.
Boschi protetti
Venezia aveva messo sotto tutela tre boschi che riteneva fondamentali per i suoi bisogni.
Il bosco degli alberi di S. Marco, che si trovava in località Somadida.
In quel punto la vallata era protetta dai venti dai Cadini di Misurina e dalle Marmarole, sopra il bosco a sudvegliava una montagna detta il Corno del doge, per la sua cima molto simile al copricapo del doge.
Qui il sole penetrava poco all’interno della vallata e il clima era, per quasi tutto l’anno, molto rigido per cui le piante crescevano molto lentamente alte e diritte.
Erano piante ideali per realizzare le alberature dellegalee, delle cocche da carico e dei galeoni da battagliadella serenissima.
Il bosco dei remi di S. Marco era localizzato nell’attuale alto pianoro che sovrasta in Alpago il lago di S. Crocedetto attualmente bosco del Cansiglio.
Il bosco dei roveri del Montello vasta collina morenica alla destra del Piave all’inizio della pianura veneta era un’area dove si coltivavano le querce. Divisa in settori con un guardiano per ogni settore era fatto divieto assoluto di entrare nel bosco e pene severissime erano comminate a chi trasgrediva
Taglio
Boscaioli
Una volta che i proprietari delle segherie hanno acquistato dalle regole o dai privati le piante da abbattere le guardie forestale le martellano. Alla fine dell’autunno e per tutto l’invernofino alla fine di marzo centinaia di boscaioli salgono sull’alta montagna in zone a volte anche impervie per abbattere le piante con l’ascia e il segone, scortecciarle e segarle in tronchi di 12 piedi veneti, m.4,20 circa oppure altre misure secondo i bisogni.
Sistemi di trasporto al fiume
Approfittando della neve i tronchi vengono trascinati con gli zappini e fatti scivolare fino al fiume lungo quelli che un tempo veniva chiamati, ludali, livinali, borrali, giavate, roibe, o risine terrene o viali d’avallamento. Questi ultimi sono vie artificiali che vengono costruite solo se la quantità del legname da avallare compensa la spesa per la realizzazione della risina.
Risina che permette ai tronchi, fluitati inmandre sul lago di Alleghe, di superare la frana del Masarè caduta dal monte Piz nel 700
Molto spesso si usano slitte guidati dall’uomo oppure trainate da un cavallo per esboscare i tronchi scortecciati, oppure a strozzo piantando cunei in ferro nella testa dei tronchi congiunti da anelli che vengono fissati al balanzin al quale si attacca un mulo o un cavallo.
A volte si usano i carri per trasferire i tronchi nei luoghi di inacquamento.
Alla fine di marzo lungo il Piave e i suoi affluenti il Cordevole, il Boite, L’Ansiei, il Padola, il Cordevole di Visdende vengono a trovarsi cosi accatastati migliaia di tronchi, pronti per essere messi in acqua e iniziare la fluitazione libera fino alle segherie.
L’operazione del segno
Tappe di riconoscimento fatte col manarin
Prima di iniziare la fluitazione i tronchi venivano segnati con i segnataie e tappati con i manarin.
Il segno e le tappe dovevano servire a riconoscere i tronchi quando arrivavano alle segherie, si potevano così selezionare i tronchi e far entrare nei canali della segheria solo i tronchi con il segno del proprietario, gli altri venivano mandati oltre
La menada grande
La menada grande si svolgeva all’incirca dai primi di aprile alla fine di luglio, durava quattro mesi. A monte di Perarolo venivano immessi in acqua ogni anno 300.000 tronchi sul Piave e 50.000 sul Cordevole. Provvedevano a far fluitare i tronchi in modo regolare i menadas che utilizzavano per il loro lavoro gli anger, unico e semplice attrezzo costituito da un lungo bastone, di betulla, in cima al quale vi erano due punte in ferro fissate da una ghiera. Utilizzavano le stue per favorire la fluitazione lungo i torrenti impervi dell’alta montagna, con i quali realizzavano delle piene artificiali, che sollevavano i tronchi e li spingevano verso il Piave dove l’abbondanza d’acqua non creava eccessivi problemi alla fluitazione.
Utilizzavano i cavalletti per dirigere i tronchi lungo il fiume. Per i primi due mesi i tronchi venivano accatastati dietro ai cidoli che si trovavano a monte di Perarolo, uno sul Piave e uno sul Boite.
I cidoli fermavano i tronchi e lasciavano passare l’acqua, impedivano che una piena improvvisa li trascinasse via in maniera disordinata e che andassero così perduti.
Alla fine di questa prima fase dietro al cidolo sul Piave subito a monte delle seghe di di Sacco venivano a trovarsi 300.000 tronchi accatastati.
Ai primi di giugno e fino alla fine di luglio i cidoli venivano aperti e i menadas trasferivano questo legname dal cidolo fino all’interno dei grandi impianti di segheria che si trovavano tra Perarolo e Longarone. La conclusione della Menada grande si aveva quando la coda di menata cioè le ultime taglie erano arrivate alle segherie del Faè, le ultime taglie venivano recuperate da due menadas su una piccola zattera dettabarcot che serviva a raccogliere i tronchi che si fermavano in mezzo al fiume
Le segherie i segantini
Le segherie Malcolm
Tredici erano gli impianti di segheria lungo i venti Km. che vanno dal Faè di Longarone a Sacco di Perarolo.
Erano nel 1870 cosi denominati: Segherie di Sacco del Bianchin, di Lazzaris di Ansogne, di Carolto, di Venago, di Rivalgo, di Candidopoli, di Termine, di Wiel poi Malcolm nel 1880, di Rivalta, di Villanova e del Vajont.
I paesetti che costellano la destra Piave da Longarone a Perarolo erano sorti in funzione delle seghe. Faè, Vajont, Rivalta, Roggia, Termine, Ospitale, Rivalgo, Rucorvo, Macchietto, Fontanella, Peron, Sacco.
La segheria era costituita da una rosta, sbarramento che serviva ad innalzare l’acqua del Piave per farla entrare nei canali, costituita da arche, travature di larice che formavano dei cassoni che venivano riempiti di pietrame.
L’acqua lungo i canali d’entrata veniva mantenuta ad una quota precisa da sfioratori che permettevano di alimentare le canalette che portavano l’acqua alla ruota della sega con una quantità costante.
I segantini vi lavorano giorno e notte a turni continui, le seghe erano alla veneziana, progettate nel 1485 da Leonardo da Vinci, ma affermano che un qualche tipo di sega esisteva già ancora prima dell’anno mille lungo il Piave.
Le seghe potevano segare tronchi fino alla lunghezza di 5 metri, oltre questa misura, i travi venivano squadrati con le manera da squarador.
Il legname segato o squadrato e le tavole venivano accatastate a valle della segheria in depositi ai bordi di un bacino non molto profondo, el mol, dove gli zattieri lo assemblavano in zattere.
Gli Zattieri
Le Compagnie degli zattieri del Piave
Cinque erano le confraternite o fraglie (fratellanze) degli zattieri: Codissago, Ponte nelle Alpi, Borgo Piave, Nervesa, Ponte di Piave.
Festa degli zattieri a Codissago
Erano gli abitanti di Codissago che costruivano le zattere, il paese posto strategicamente a valle delle segherie permetteva loro dipartire a mattina presto, raggiungere le segherie, costruire la zattera e verso sera scendere il fiume e arrivare con la zattera davanti al paese dove veniva ormeggiata, appena sotto la punta, al cosidetto porto di Castello
Portavano all’osteria del paese la carta, specie di bolla di accompagnamento nella quale oltre ad una descrizione del legname che costituiva la zattera vi era descritto tutto quello che era avvenuto durante il tragitto dalla segheria a Codissago, incidenti, mancanze accrescimenti, pregiudicazioni, arbitri o variazioni, in calce portava la scritta “che Dio ci porti a salvamento”.
Il giorno dopo, mentre gli zattieri di Codissago risalivano il Piave per ritornare a costruire un’altra zattera, gli zattieri di Ponte nelle Alpi salivano a prendere in consegna la zattera, si recavano all’osteria del paese a ritirare la stampa e scendevano fino a Belluno. Al Rai di Cadola si fermavano per caricare le stele da remo di faggio che provenivano dal Cansiglio e proseguivano fino al porto di Borgo Piave sotto Belluno.
Qui veniva pagato il dazio al Vescovo di Belluno la zattera sostava la notte e al mattino gli zattieri di Borgo Piave salpavano alle prime luci dell’alba e facevano 60 Km di percorso fino a Falzè di Piave. Lungo il percorso dovevano pagare il dazio al Castello di Quero dove la notte veniva tirata una catena perimpedire il passaggio delle zattere.
A volte si fermavano sotto il Montello a S. Mama per caricare i roveri del Montello. Arrivavano a Falzè all’incirca a mezzogiorno, mangiavano e subito dopo iniziavano la marcia di ritorno di 40 Km, risalivano la montagna lungo il passo di Praderadego o il S. Boldo, verso sera potevano fermarsi alla trattoria Cappello a Mel per mangiare una minestra e poi rientravano a Borgo Piave, perché la mattina dopo un’altra zattera gli attendeva
Da Falzè il quarto giorno gli zattieri di Nervesa salpavano per Ponte di Piave e qui il quinto giorno le zattere veniva legate le une alle altre a formare un lungo treno, a Musile di Piave si superavano le paratoie che separavano la Piave nuova dalla Piave vecchia, si pagava il dazio e poi le zattere proseguivano lungo il canale Caligo, trainate da cavalli che avanzavano sulle alzaie, arrivavano ai Treporti dove, approfittando della marea montante entravano in laguna e poi cessata la marea venivano trainate dai burchi a vela fino alla Sacca della Misericordia.
Qui le zattere venivano disfatte e il legname veniva accatastato nei depositi dei mercanti Cadorini che si trovavano al Pra della Vigna. Oppure proseguivano direttamente verso l’arsenale che si trovava li vicino.
Tremila erano le zattere che di media ogni anno scendevano fino a Venezia.
Il documento più antico che testimonia questa attività da partedella gente di Codissago è del 1512, e parla di un certoAlexandro Olivier che trasporta oltre al legname pani di rame.
La costruzione della zattera
La zattera classica era detta in dialetto “zata era costituita interamente di tavole di legname segato e aveva le dimensioni di m. 21x 4,20. Era divisa in cinque settori dette “copule” della lunghezza di 12 piedi veneti (il piede veneto è di m 0,348) m. 4,20~.
Il settore anteriore e quello posteriore era destinato agli zattieri che dirigevano la zattera con due remi davanti e due dietro. In testa avevamo il Caporal de man a maestro a sinistra che era il capo zattera e il Caporal de man a fant a destra.
Dietro vi erano i due codan.
Le tre copule centrali di m 12,60x 4,20 eranoriservate per il carico, che poteva essere di fasci di tavole pezzelegati con le sacheoppure dei più svariati materiali caricati lungo il percorso verso Venezia. Pietra lavorata, mole di arenaria per affilare le spade, sacchi dicarbone vegetale, chiodi di ferro provenienti dalla valle di Zoldo, ferro, rame, piombo, e acido solforico proveniente dalle miniere di Val Imperina, canapa vegetale per tessuti, macine di mulini, animali, formaggio, prodotti vari della montagna e buon ultimo passegger
I legnami che costituivano la zattera arano assemblati dagli zattieri facendo dei fori in testa al legname con le trivele cervenei quali venivano passate le sache,
Le sache messe a bagnare prima di usarle per legare la zattera.
bacchette di nocciolo ritorte che si trovavano abbondanti lungo le rive del Piave. A questa bisogna erano addettin iligador Ogni zattera necessitava di circa 250 sache per la legatura, se si considera che ogni anno scendevano il Piave 3000 zattere, vediamo che ogni anno servivano agli zattieri 750.000 sache.
Le sache si dividono in tre categorie a secondo della misura: lesache bastarde che non superano i m. 1,80, le sache normaliche possono arrivare a m.2,20, e i sarangoni che vanno oltre i m. 2,20. Le sache venivano tagliate preferibilmente in autunno, al cader delle foglie, quando l’arbusto era maturo e veniva fatto dagli zattieri nei ritagli di tempo libero. Raccolte, ritorte e sistemate in fasci le sache venivano vendute ai proprietari delle segherie e rappresentavano per gli zattieri una fonte seppur misera del proprio guadagno.
Con le sache si uniscono due copule
Abbiamo poi il Raso Ras, che era una zattera costituita di alberi delle navi. La lunghezza della zattera era stabilita dai due alberi maestri che si ponevano all’esterno e che potevano raggiungere la misura di 35 m.All’interno venivano poste altre 16 antenne di dimensioni minori per un totale di 18 alberi delle navi.
Normalmente un raso serviva ad armare due galeoni
Il raso non portava mai carico, sopra venivano poste in senso longitudinale tre antenne, sulle quali veniva steso un piano di tavole detto suolo sul quale gli zattieri potevano correre avanti e indietro per allontanare con lunghe pertiche la zattera dalle asperità delle rocce.
Nomenclatura della zattera
Vi erano poi altre tipi di zattere:
Il raset costituito da due copule di antenne di lunghezza e spessori minori.
La barca costituita da. tre copule di travi da 7 metri
Il barcot de sbare costituita da due copule di travi di 10 m.
Il barcot da rai costituito da cinque copule di taglie da m. 4,20
Altre zattere denominate: troncona, barcot de scors, mandra de carbon, la faghera, la melosa delle quali non si conosce con precisione come erano fatte.
La Navigazione
La vita degli zattieri non era certo facile. Gli zattieri di Codissago soprattutto quelli che arrivavano a Perarolo dovevano fare 20 Km a piedi, costruire la zattere facendo a mano 250 fori con le trivelle, ritorcere e assemblare il legname con le sache, costruire quattro remi e i relativi scalmi dettipostei, caricare le tavole e fissarle sempre con le sache.
Completata la zattera che era normalmente di 21x4,20 e pesante 20 t. scendevano il fiume e ad ogni sbarramento delle segherie dovevano infilare uno scivolo el bus dei cavi della larghezza di 6 m unico passaggio che permetteva di superare la rosta, alla fine dello scivolo la parte anteriore della zattera finiva sott’acqua.
Il fiume nel tratto Perarolo Codissago è molto tortuoso e succedevano spesso incidenti anche mortali. A monte di Codissago vi è un posto dove il fiume fa una rapida curva e controcurva detto Malatorta nome che dice tutto su quello che gli zattieri pensavano del luogo.
Altri posti difficili erano alla stretta di Quero dove avvenivano spesso incidenti e dove le zattere erano spinte da correnti contrastanti sott’acqua.
Altro passaggio delicato e infido sotto il Montello a causa delle rocce affioranti dette croste, che provocavano spesso gravi incidenti alle zattere tanto che ancora ai giorni nostri in quella zona si ritrovano oggetti che possono essere fatti risalire a carichi di zattere .
Un grosso inconveniente erano gli arenamenti, gli zattieri allora allargavano i mantei due travi con due tavole uno a destra e uno a sinistra che convogliavano l’acqua verso la zattera e se non bastava ne mettevano altri fino a che la zattera non ripartiva.
Ma per comprendere cosa si provava durante una discesa in zattera ecosa era un tempo il Piave, basta leggere quanto scrive Napoleone Cozzi nella rivista Alpi Giulie n.4 del 1899 nel suo racconto:
“Da Perarolo a Belluno con uno strano mezzo di locomozione”
Quando si giunse al luogo d’imbarco, una brigata chiassosa di zattèri allineavano le ultime travi, marcavano le assi. Assicuravano cogli ultimi legacci le parti vitali del bizzarro veicolo che dovea portarci a Longarone.
A Perarolo, il Piave non è più nella sua infanzia, sebbene conservi di esso il candore incantevole la incantevole limpidezza. L’umile rivo della Val Visdente che si attraversa di un salto, che scorre tra il morbido velluto dei muschi, sotto le frondi intrecciate della verzura, ove la calidità estiva non arriva mai a togliere la freschezza, ne avvizzire i teneri virgulti delle sue ripide sponde, il tenue ruscelletto, che sceso appena dalle selvose balze del Peralba porta giù pomposamente il titolo illustre di fiume, si presenta qui nella sua virile fierezza.
Il Padola, l’Ansiei, il Boite e cento altri affluenti minori vi hanno riversato il loro liquido tributo; la massa delle sue acque, che si urtano con fracasso e si frangono in candide spume, hanno già reso importanti servigi, hanno mosso le pale a una dozzina di seghe e molini, hanno travolto nella loro ridda impetuosa migliaia di tronchi e sono capaci, di trascinar via come un fuscello di paglia, con un volo fantastico di 12 chilometri all’ora, quella superficie mobile di oltre 70 metri quadrati, quell’ammasso galleggiante di due o trecento travi che costituisce una zattera.
Dei primi momenti, resta un ricordo confuso, il comando secco del capo zattiere, il colpo di remo che ci dirige risolutamente nel mezzo del fiume, il coro dei saluti e degli auguri che si elevano dalla sponda; Perarolo, che sparisce al primo svolto.
Che sensazione! Che pofusione di meraviglie sempre nuove, quante bellezze inattese, che luci, che frescura!
La zattera segue normalmente il tronco principale del fiume e serpeggia con esso a curve ora strette ora ampie, zitta e velocissima; passa sotto un masso fuori di piombo, guizza tra i fogliami, s’interna in una gola, esce libera in un largo bacino.
In fondo , all’apertura della valle, fin dove arriva l’occhio, le ultime balze violette sembrano gareggiare fra loro per arrivare prime a mostrare i loro dettagli; si fanno grigie, offrono il contorno più netto, le tinte più decise; gettano sui rami d’acqua morta i loro tremuli riflessi, passano rapide, mostrando superfici fiorite, macchie d’abeti, rigagnoli inaspettati, frane, sentieri, vallicole, burroni, fianchi squarciati, vaghezze in tutte le forme; scompaiono ad una voltata per ricomparire più tardi dietro a noi, lontano, colle forme rimpicciolite, confuse, colle foreste impallidite, colle linee perdute fra le ombre leggere.
Passano casette rustiche, isolate o a gruppi, passano molini, ponti, seghe; dalle valli secondarie affluenti d’ogni grandezza si uniscono al Piave, quali a cascatelle, quali con un ultimo salto, quali scendendo blandatamente dal loro candido letto di ghiaia.
Lassù in alto, sulla strada, che segue la line adel fiume, corrono rotabili di ogni specie, avvolti in nuvoli di polvere; presto sono raggiunti, lasciati indietro. Vetture zeppe di vileggianti che ci guardano sbigottiti con i loro binocoli e rispondono con lo sventolio dei fazzoletti ai nostri mimici saluti.
Non sempre però si corre così tranquillamente; gl’incidenti abbondano ed offrono la nota seria od allegra, secondo la natura loro.
Spesso, per evitare una rapida curva, si sceglie un braccio di minor profondità; la zattera si trascina gravemente, stride sui ciotoli, è uno scompiglio, un finimondo per le povere viscere.
Talvolta, proprio quando sembra di veder chiaro per un lungo tratto di percorso, la faccia del capo zattera si rabbuia; i suoi cenni si fanno più decisi, più autorevoli, uno sprone di roccia è li minaccioso ad uno stretto svolto e non si può evitare. I colpi di remo si fanno più spessi, diventano febbrili, disperati; ma è vano, impotente ogni sforzo. Il pesante veicolo viene scaraventato contro, l’impeto lo rende indomabile; tutto dovrà sfasciarsi, convien pensare al salvataggio.
Ad un’affanoso silenzio, succede uno scricchiolio formidabile, poi una scossa potente, disastrosa, che tutto sconvolge, accavalla; sposta, sbalza, sommerge.
Il natante sembra squassato; il corretto rettangolo è diventato un goffo trapezoide. Lo sfregamento ha reso le parti esposte, smussato gli angoli; l’urto ha spezzato un remo, svelto uno scalmiere, reciso i legami a una decina di travi che vengono travolte dalla corrente e perdute, ma il resto è salvo; la meravigliosa costruzione ha resistito!
Più scabroso è l’affare, allorchè l’urto avviene in piena prora della zattera e ne tronca di botto la corsa violenta.
Che lavorio allora per smuovere a grado a grado l’inerte massa, cui la rapidità della corrente tiene lì fissa, incastrata, nelle sinuosità rocciose dell’immane ostacolo!
Ma queste impazienze, queste irrequietezze, queste agitazioni, sono ad esuberanza compensate da alcuni punti, i più belli, i più superbi del tragitto, che non hanno riscontro, che si elevano al di sopra d’ogni superlativo, oltre ogni azzardata similitudine: Le cascate!
Già ad una certa distanza, il corso del fiume sembra troncato da una diga che lo attraversa lasciando uno sbocco stretto oltre il quale l’enorme massa liquida precipita con fragore. Avvicinandosi, si pensa, e si ha tutta la voglia di credere che certamente la zattera verrà trattenuta o sviata da chi sa che congegni, da cisa quali provvidenziali circostanze. Corre invece sciolta ed ardita l’infamissima! È un’indegnità; deve essere una grossa una colossale celia o una pazziasenza nome; saranno matti i zattèri. Ormai non c’è scampo; ancora pochi momenti e saremo assorbiti, ingoiati. La velocità aumenta ancora, il rombo si fa sempre più assordante. Si vorrebbe coprire il viso colle mani, vien voglia di ribellarsi spiccando un salto disperato sulla ghaia fuggente.
Ci siamo: I due provieri lasciano i remi, si curvano si afferrano alla corda, la prima parte della zattera cigola, si piega, precipita, dispare. Dietro a noi ritto, fiero, impassibile come il dio delle tempeste il capo zattera da col suo remo l’ultimo colpo direttivo, poi si abbassa, si assicura anche lui. Ecco l’attimo: numi dell’abisso! L’appoggio ci manca sotto; le dita si aggrappano alle travi, si aggrovigliano alle corde, ai legacci, quindi con un altissimo grido d’entusiasmo sprofondiamo, ebbri d’emozione, lambiti da un’onda di spuma, avvolti da un diluvio di spruzzi argentini.
Il tratto da Perarolo a Longarone dura un paio d’ore e sono le più belle della vita.
È un complesso d’incantevoli sensazioni che si succedono veloci e continue. È un sogno irradiato da immagini deliziose.
È un tripudio, di cui il solo ricordo è atto da per sé a medicare tutte le malinconie della vita e tale, da far meraviglia come non sia il divertimento preferito da mezza umanità.
Più in giù, la valle si allarga, ogni cosa s’appiattisce. Alla sottile striscia del cielo, alle cupi e bizzarre fantasie di Salvator Rosa, subentrano i vasti orizzonti, le calme soavi del Morelli; al vivido soffio delle brezze cadorine, le tiepide aure degli amenissimi colli bellunesi.
Quanti arenamenti da Longarone a Belluno! Che sforzi di braccia e d’ingegno per rimetterci in corso!
Il nostro viaggio finisce qui ma non è qui che il viaggio della zattera finisce.
Sulla sua ampia rotaia liquida, passerà altre chiuse, vedrà altre città, altre borgate, altre rive feconde; e correrà ancora ancora, sulle onde maestose dell’azzurro Piave dalle larghissime distese di ghiaia, via via, tra i fiordalisi; le biade, e gli sparsi casolari delle campagne solitarie; tra i filari di pioppi e le alte giunchiglie, laggiù nell’immensa pace delle sconfinate pianure venete.
I materiali trasportati, utilizzo e vendita.
Oltre al legname la zattera era il mezzo che un tempo trasportava tutti i prodotti della montagna.
A Macchietto vi erano le carbonaie, che producevano bruciando nei poiat faggio e carpino, carbone vegetale e così pure a Erto e Casso. Il carbone messo in sacchi veniva portato con i muli al fiume e caricato
A Castellavazzo e Codissago le cave di pietra sfornavano pezzi lavorati che venivano caricati sulle zattere.
Dalla valle di Zoldo dove vi erano numerose fucine per la lavorazione a caldo del ferro, le casse di chiodi venivano portate a Longarone e qui caricate.
A Soccher si producevano mole per i mulini.
A Libano vi erano le cave di arenaria aperte ancora al tempo dei romani che venivano portate con i carri fino a Borgo Piave.
Si piantano i pali delle fondazione con il battipalo mosso a forza di braccia
Dalle miniere della val Imperinavicino ad Agordo, trasportati da carri con le ruote molto grandi e trascinati dai cavalli di frisia, scendevano fino al ponte di S. Felice vicino a Trichiana, pani di piombo ferro e rame, e botti di acido solforico di vario tipo che serviva per la tintura delle stoffe e per altri usi.
Lungo il percorso fino a Venezia potevano essere caricati anche: animali, prodotti della campagna e da Belluno in giù anche passeggeri.
La zattera era il mezzo più comodo e veloce per il trasporto delle merci, il fiume l’autentica autostrada dell’epoca, gli zattieri forti e coraggiosi l’elemento umano che rendeva possibile tutto questo ingente traffico di merci.
A Venezia il legname veniva utilizzato per le fondazioni della città dato che Venezia si appoggia su milioni di pali piantati sul fondo della laguna, per la costruzione delle case e dei palazzi, per la costruzione delle navi della flotta della Serenissima con le quali ha potuto dominare per secoli su tutto il mediterraneo.
Venezia in tutto il suo splendore dipinto del Canaletto
La pietra veniva utilizzata per la costruzione delle case, le mole di Libano servivano per affilare le spade e poi venivano commercializzate su tutto il mediterraneo.
Venezia senza i rifornimenti che provenivano dal Piave, molto difficilmente avrebbe potuto sopravvivere.

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